E così, alla fine, Franco Sensi e la sua Roma rischiano di finire tra i prescritti per il caso-plusvalenze, che a dirla tutta si dovrebbe chiamare caso-Nakata. Intorno alla società di Trigoria si amano spesso fare sintesi dure giocando con le parole, che vengono usate a sproposito per amplificare i presunti illeciti. Illeciti per cui, a quanto pare, la Roma non ha mai pagato, a differenza di altre società oneste punite severamente. Così dicono i corretti colpevoli, almeno.
Vorrei essere capace di difendere i miei colori dalle infamie: dai Rolex ai debiti, dalle fidejussioni false fino a queste plusvalenze inventate. Vorrei essere capace di dire quello che i tifosi delle altre squadre non sanno dire, per miopia, orgoglio o malafede.
In verità, un abbozzo di difesa si può anche provare.
I famigerati Rolex d'oro agli arbitri non sono andati, tanto per cominciare, agli arbitri. Per quanto la famiglia Sensi sia ricca, non si sarebbe mai sognata di dilapidare migliaia di euro in costosi orologi d'oro per tutti i fischietti e i guardalinee della Federazione. Sarebbe stata un'operazione gigantesca e allucinante dal punto di vista economico, oltre che morale. I Rolex sono stati donati ai designatori, mentre agli arbitri più celebri sono andati dei modesti Philip Watch in acciaio. Il tutto messo per iscritto nel bilancio di una società per azioni con regolare quotazione in Borsa. Mi rimane difficile pensare che un ladro metta nero su bianco il proprio furto, a disposizione di organi federali e controllori ferrei come la Consob e la Covisoc. Mi rimane ancora più difficile pensare che un ladro compia la sua bravata davanti a tutti, per poi finire sui quotidiani del giorno dopo. Non si può credere davvero ad una tentata corruzione fatta in un modo talmente stupido da risultare ridicolo. Eppure è successo realmente; l'episodio è stato rilevato dalle prime pagine di tutti i giornali, la Roma ha ritirato gli orologi fornendo spiegazioni imbarazzate, tante scuse e amici come prima. Mi piacerebbe avere la convinzione che si sia trattato di una svista madornale, di un'ingenuità pacchiana, di una mania di grandezza, soprattutto perché a gente come Bergamo e Pairetto si sarebbe dovuto regalare un cesto di uova marce. Eppure eccola, sulla bocca di tutti i tifosi avversari, la corruzione bella e buona, senza appello e con tanta impunità.
I debiti c'erano, ed erano pesanti. Certo, Franco Sensi non è entrato nel mondo del pallone solo per possedere la sua squadra del cuore. C'è entrato assieme ad un volto noto dell'imprenditoria maneggiona romana, quel Pietro Mezzaroma fratello di Roberto, socio di Lotito nell'acquisizione della Lazio. Dopo un periodo di coreggenza, Sensi ha liquidato il suo sodale e si è preso la Roma tutta per sé. Ha speso quel che ha potuto, andando al di sopra delle proprie possibilità e un giorno gli hanno presentato il conto. Ha dovuto pagare, e anche qui è piuttosto chiaro che i pagamenti ci sono stati, grazie alla vendita di asset importanti: l'Hotel Cicerone nel centro della capitale, le quote degli Aeroporti di Roma e di Italpetroli, altre proprietà di minor valore vendute in fretta che hanno fruttato un discreto gruzzolo. Stesso discorso di prima, ci sono stati organismi addetti al controllo che non hanno avuto nulla da ridire. E per me contano di più delle inchieste di Tuttosport basate sui titoloni ad effetto. Purtroppo, però, per il tifoso medio italiota contano più le parole di queste pseudoinchieste e quindi la Roma è diventata la squadra salvata dai debiti, grazie anche ad un decreto del governo. Un decreto di cui, francamente, la società giallorossa non ha approfittato più di Lazio, Milan e Inter (la Juve no, non ne aveva bisogno con la dirigenza triadica) e forse qualche altra società che adesso non ricordo. Eppure il provvedimento c'è stato, ed è stato bocciato dalla Commissione Antitrust Europea. Eppure la Roma è stata l'unica miracolata e soprattutto è divenuta responsabile dell'affossamento del Bologna e non ha pagato quanto la bistrattata Fiorentina di Cecchi Gori, retrocessa in C2 con il disonore del fallimento.
Capitolo fidejussioni false. Sarò onesto. Sono andato a ricercare in rete qualche notizia seria in merito, nel senso che avrei voluto fare un bel copia e incolla di atti giudiziari o perlomeno di sentenze emesse. Invece ho trovato i sentito dire, le voci di corridoio, i lamenti e le accuse. A questo punto devo per forza essere impreciso, anche se alla fine ciò che ho letto avalla in pieno il mio tentativo apologetico. Da quel che si sa, la Roma presentò i pagamenti per l'iscrizione al campionato in due tranche: cominciò con una fetta sostanziosa, coperta da un credito concesso dalla Banca di Roma. Alla scadenza del periodo valido per iscriversi, i conti non tornarono e la Lega spinse la Roma verso un fidejussore di fiducia per colmare una lacuna di circa 7 mln. di euro - mi pare. La Roma si affidò al fidejussore in questione (di cui purtroppo non trovo traccia ufficiale) e si scoprì in seguito l'inghippo, cioè che le fidejussioni erano fasulle. Apriti cielo: ma la Roma si costituì parte lesa ed ebbe ragione. Non fu l'unica società, peraltro, a essere raggirata, poiché c'erano altre squadre nella vicenda. Alcuni ritengono impossibile che un imprenditore navigato come Sensi potesse cadere in un simile giochetto; altri semplicemente si limitano ad identificare il truffatore con il truffato, perciò l'equazione sballata secondo cui la Roma ha presentato delle finte garanzie ha finito per condannare non il finto garante ma la stessa società capitolina. Fatti due calcoli rapidi, mi viene da pensare che Franco Sensi aveva lottato contro il "sistema", definendolo "Vento del Nord" e riferendosi apertamente a Moggi e Galliani. Quest'ultimo venne poi eletto presidente di Lega e guardacaso la Lega consigliò il fidejussore truffaldino. Sa un po' di avvertimento mafioso, questa storia. Eppure la Roma è diventata la squadra che non doveva essere iscritta al campionato ed è stata graziata, che ha operato sottobanco in modo furbesco. Basta scrivere "fidejussioni false" su Google per leggere i vari soloni che sentenziano, con tanto di toga e parrucca.
Le plusvalenze, in buona sostanza, sono la cosa meno scandalosa, e forse per questo i megafoni antiromanisti ne hanno parlato di meno. Si contesta alla società la mancata iscrizione della plusvalenza generata dal trasferimento di Hidetoshi Nakata nel bilancio 2001-2002; iscrizione però trascritta interamente nel bilancio 2000-2001. Non può essere stata una distrazione, è pacifico. Si parla esattamente di quasi 14 mln. di euro. Resta un pasticcio di natura economica, che non credo possa compromettere la permanenza di una squadra in serie A. Oltretutto il reato, contestato sette anni addietro, cadrà probabilmente in prescrizione. La magistratura fa notare, tuttavia, che il procedimento di inchiesta andrà avanti per accertare la presunta responsabilità amministrativa della società A.S. Roma S.p.a. Anzitutto vorrei rilevare che "le plusvalenze" fraudolente sono in realtà "la plusvalenza". Secondo poi la cifra è stata riportata per intero nel bilancio dell'anno precedente, cosa che qualcuno ha dimenticato, nella sua infinita malizia, di sottolineare. Eppure, anche qui, bisogna considerare che si è giocato con le cifre, con i bilanci. Eppure Sensi è stato additato da molti come colui che trucca i conti, che evade il fisco, che froda il CONI, la Federcalcio e lo Stato.
Mi collego a quest'ultima parte per chiudere il cerchio con la famosa questione delle regole cambiate in corsa. Fu proprio Nakata ad assicurare lo scudetto alla Roma, nella gara a Torino contro la Juventus. Il giapponese entrò, segnò e fece segnare Montella, grazie ad una regola introdotta nella settimana precedente, che permetteva alle squadre di schierare più di 3 extracomunitari. Nonostante la Roma di quella stagione meritasse senza dubbi lo scudetto, gli juventini reagirono con un astio inaudito alla nuova regola. Come se Nakata fosse stato predestinato, come se si sapesse da tempo che il giapponese avrebbe fatto la differenza. Se Nakata non avesse segnato, probabilmente non sarebbe mai uscita la polemica, specie perché a decidere la regola fu la FIFA. Eppure Hide è entrato proprio in quella gara e proprio quella sera è stato decisivo. Eppure la Roma, indovinate un po'?, è riuscita ad imporre la sua legge su misura con una manovra degna della CIA.
Sorvolo sulla questione dei passaporti falsi; una questione che fa ridere perché chi doveva pagare ha pagato senza clamori e chi doveva essere assolto è stato assolto con formula piena, grazie ad un'accurata documentazione.
Spero di aver difeso bene la mia Roma. Ma...
Me ne vergogno. Solo il fatto che ci siano questi sospetti, queste accuse, queste chiacchiere mi imbarazza. Solo il fatto che il nome della Roma sia stato accostato ad avvenimenti oscuri mi mette a disagio. Mi vergogno perché conosco la lealtà, perché non sono abituato ad una cultura che impone il successo a qualsiasi prezzo, perché mi dispiace sempre vincere con un rigore anziché con grandi azioni. Mi vergogno perché la legge assolve i malfattori, perché ho la dignità del perdente, perché ho lo stile del vincitore. Mi vergogno perché sono in grado di affrontare l'avversario a testa alta, perché non cerco amicizie influenti, perché gioco le mie carte senza tenere assi nella manica. Mi vergogno perché so cos'è giusto e cos'è sbagliato, perché soffro e gioisco, perché riconosco il torto e la ragione. Mi vergogno perché rispetto gli altri, perché ammetto i miei errori, perché non mi sento furbo. Mi vergogno perché odio le triadi, i presidenti mafiosi, gli arraffoni travestiti da tifosi. Mi vergogno perché disprezzo chi va a piangere in tv, sui giornali, alla radio. Mi vergogno perché non punto il dito, non ho pregiudizi, non penso alle macchie degli altri per lavare la mia coscienza. Mi vergogno perché non sopporto gli opinionisti da strapazzo, i giornalisti prezzolati, i capipopolo ignoranti.
Mi vergogno perché non faccio striscioni per Moggi e Giraudo, perché non ringrazio applaudendo Della Valle, perché non inneggio a Lotito, perché non stimo Galliani, perché non condivido l'operato di Moratti.
Perché non simpatizzo per Rosella Sensi, e ho la decenza di dirlo.
Io, da romanista, mi vergogno proprio perché me lo posso permettere.
mercoledì 25 aprile 2007
Doping Amministrativo Inc.
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martedì 24 aprile 2007
Quando il cane si morde la coda
La Roma perde a Bergamo, l'Inter vince a Siena. L'Inter è campione d'Italia con cinque giornate d'anticipo. Slittata la festa al Meazza, si gioisce al Franchi. La mente va a tutti quegli interisti che questo scudetto l'hanno atteso tanto, tra delusioni e preghiere, e a quelli che non ci sono più, purtroppo, e il riferimento non casuale è a due figure storiche e indimenticate del calcio nostrano: Peppino Prisco e Giacinto Facchetti. Due grandi personaggi, senza altro da aggiungere.
Nella felicità probabilmente non avrebbero dato importanza a qualche piccolo neo che non inficia la vittoria finale, frutto di una cavalcata a dir poco stupefacente, compiuta da una squadra quadrata e robusta. Devo dire che quando ho iniziato questo post avevo intenzioni ben diverse, avrei voluto elencare i piccoli nei da subito. Poi mi sono reso conto che, al di là delle antipatie, l'Inter non può meritare nient'altro che i complimenti. Perché ha perso una sola partita contro la seconda in classifica cui ha dato un distacco notevole, perché le chiacchiere stanno a zero quando vinci 18 gare di seguito, perché quando si hanno nella rosa solo giocatori di primo piano le accuse invidiose nemmeno ti sfiorano. Soprattutto perché il campionato italiano sarà stato di certo anomalo, quest'anno, ma la tipica giustificazione "Con la Juve sarebbe stata un'altra serie A" mi è sempre parsa strana, stonata, fuori posto. Posto che la Juventus è stata condannata per degli illeciti largamente dimostrati e ha avuto l'opportunità di difendersi nelle sedi appropriate (con tanto di ricorsi della nuova elegantissima dirigenza, che commentò prima delle sentenze "Siamo fiduciosi, accetteremo tutto" salvo poi rimangiarsi ogni parola), mi chiedo se la presenza bianconera possa determinare così tanto un campionato di calcio, a tal punto da farlo risultare bello o brutto. Ma chi l'ha detto che i campionati della Vecchia Signora made in Triade erano belli e appassionanti? Tutti sapevano che quando si affrontava la Juventus bisognava mettersi il cuore in pace perché ci sarebbe stato un aiuto arbitrale o un evento sospetto. Non dico che la Juve non fosse forte, ma si ricordano ancora bene delle reti mai segnate, dei gol annullati senza motivo, dei rigori passati inosservati, altri inventati di sana pianta. E sempre a senso unico. Possiamo metterci a discutere di procedure della giustizia sportiva, accomodiamoci. Di fatto, l'Italia del pallone, tifosi bianconeri obbiettivi compresi, sapeva benissimo che Moggi & Company avevano in mano le partite, il mercato e alcuni arbitri sudditi del potere emanato da Torino. A me sembra molto offensivo pensare che una serie A senza la Juventus sia meno bella; purtroppo, gli anti-interisti invece, non rendendosi conto di fare la figura dei gregari, hanno subito fatta loro questa strampalata tesi. Un altro discorso si può fare riguardo le penalizzazioni; è probabilmente vero che la mancanza di punti ha condizionato il cammino di Milan, Fiorentina e Lazio. Ma ci sono alcune singolarità anche in questo ragionamento. Prima di tutto, perché tre squadre così demotivate oggi lottano nei piani alti della classifica. Il Milan è addirittura in semifinale di Champions. La Lazio rischia di arrivare seconda. La Fiorentina ha perso il treno per la Champions ma il suo girone di ritorno è ottimo. Se fossero state tanto fiaccate dalla penalizzazione, non sarebbero andate oltre il sesto-settimo posto. La dimostrazione pratica di quando si perde la testa è nelle stagioni passate, vedere la Roma del 2004-05, e nella stagione in corso, col Palermo che da secondo è ormai sesto ed in caduta libera, con tanto di allenatore esonerato. Anche volendo ridare a queste società i punti tolti, avremmo solo l'Empoli dietro (che comunque sta facendo un campionato a dir poco eccezionale) e appunto il Palermo, che è due soli punti sopra i viola. La seconda stranezza, poi, ma di natura squisitamente polemica, riguarda il fatto che non si cita mai la Reggina, anch'essa penalizzata di undici punti. Certo, non è il Milan, ma è pur sempre una squadra che oggi lotterebbe per la zona UEFA. E per la Reggina sarebbe un piccolo scudetto. Ma di questo non si parla, perché ognuno deve guardare il proprio cantuccio e preferisce buttare fango addosso a Moratti.
Si tira in ballo Guido Rossi, che il malvezzo italico vuole ora trattato come un amichetto d'infanzia da chiunque mentre fino all'anno scorso nessuno sapeva chi fosse. Si tirano in ballo le intercettazioni, capitolo effettivamente equivoco. Anche se bisognerebbe vederne la portata: quando si parla di italiani spiati da Telecom è un conto, quando invece si parla di De Santis intercettato e pedinato per volere di un Moratti che non ne poteva più secondo me è un altro. E' probabile che siano due facce della stessa medaglia, ma presa esclusivamente la parte del calcio questa faccenda non mi crea dispiaceri. Chiaramente poi c'è un discorso etico che porta ad un'ovvia condanna. Ma la domanda spontanea è: cosa ha rubato l'Inter in tutta questa storia? Forse, senza Rossi e le intercettazioni, Moggi e Giraudo sarebbero stati più onesti? Il campionato di serie A si sarebbe giocato in un clima di sereno agonismo sportivo? No. L'unica cosa molto molto seria di cui si potrebbe parlare è il giro di finanze legato alla società di Via Durini, che peraltro si trova sommersa da debiti altissimi. Ma è una questione di economia, seppure pesante, in cui non mi azzardo ad entrare in questo blog.
Insomma, alla fin fine, si è trattato di un torneo particolare, di un anno pieno di magheggi risolti a metà, di finti onesti e veri ladri. Però l'Inter resta la vincitrice indiscussa sul campo. A Siena, forse, così come contro la Roma, gli è stato dato un rigore generoso. Forse l'arbitro ha voluto accelerare la certezza della vittoria, che comunque sarebbe arrivata prima o poi. Non saranno due falle, per quanto gravi, a gettare ombra su una corazzata. Piuttosto sono altre le cose da dire. Che non gettano ombre ma di sicuro fanno meditare su come il mondo del calcio sia sempre più un riflesso condizionato di un paese ridicolo.
Nelle numerose interviste seguite alla conquista del titolo, i giocatori e i dirigenti nerazzurri si sono prodotti in numerose esultanze. Alcune sono state ordinarie, altre un po' meno.
Massimo Moratti è stato quello meno scandaloso. Nonostante da un po' abbia perso l'aplomb che tutti gli abbiamo sempre riconosciuto, il "signore" ha detto due cose sagge: "L'anno prossimo vinciamo con più italiani" e "L'anno prossimo vorrei rivincere senza spendere troppo". Due considerazioni veloci: finalmente qualcuno si è accorto che l'Inter è una squadra che di italiano ha poco e niente (ed io non sono uno sfegatato nazionalista, anzi). E poi: ci vuole una gran faccia tosta per dire una cosa del genere, quando si sa che l'Inter sta puntando Buffon e non si accontenterà di qualche rincalzo per sostituire Figo, a quanto pare partente. Tra l'altro, rimando sempre alla storia in cui non mi sono addentrato, e cioè i debiti crescenti (chi parla di 159, chi di 180 mln. di euro).
Roberto Mancini, col suo fare simpatico, parla apertamente di "Scudetto onesto, vinto senza aiuti". E' vero. Mancini è stato uno dei nemici giurati di Moggi, questo tocca ammetterlo. Tuttavia qualcosa non quadra. Lui dice che non era un uomo GEA, Moggi invece afferma il contrario. Fermo restando che tra il Mancio e Lucianone butto quest'ultimo dalla torre, non saprei chi ha ragione. Le voci di popolo vogliono Mancini nella GEA, e si adombra da più parti l'ipotesi che ne fosse addirittura socio. La verità non la sapremo forse mai, ma visto anche il modo repentino in cui si è guadagnato il patentino da allenatore, eviterei di ascoltare le sue sparate da uomo che ha sudato le proverbiali sette camicie.
A questo punto, si apre inoltre un dibattito dal vago sapore logico-aritmetico.
Javier Zanetti ha parlato di "Secondo scudetto". I conti tornano, considerando che quello assegnato d'ufficio è il primo. Ma Zlatan Ibrahimovic, nella sua infinita modestia, ha dichiarato "Dove vado vinco, è il mio terzo scudetto di seguito". Ora, Ibra ha giocato due campionati nella Juve e uno nell'Inter. Se dice "Dove vado vinco" e poi parla di "terzo scudetto di seguito", è chiaro che il secondo a cui fa riferimento è quello vinto con la Juventus - illecitamente, come il primo che è stato revocato, ad ogni buon conto. Quindi i calcoli non sono proprio giusti e chissà se qualcuno avrà fatto notare allo svedese questa sua uscita. Specialmente perché subito dopo, nell'atmosfera festosa che avvolgeva i nerazzurri, anche lui si è orgogliosamente messo a cantare il sobrio coretto: "Senza rubare, vinciamo senza rubare".
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Azzurri d'Italia e altre riflessioni
Poco da dire, sulla partita di domenica. L'Atalanta batte meritatamente la Roma, nonostante qualcuno abbia voluto vedere un arbitraggio pessimo di Rosetti che, a mio avviso, è stato decente, esclusa l'espulsione di Matteo Ferrari, nel finale, che nemmeno tocca l'avversario. Comunque il gol di Cristiano Doni consacra lo stesso numero 72 e la sua stagione impeccabile, su cui nessuno avrebbe scommesso dopo un periodo di buio totale. Il caso ha voluto che segnasse proprio lui, il quale ha salutato con anticipo il campionato italiano per operarsi di ernia. Certo che se si pensa che Doni ha 34 anni, che viene da tre annate piuttosto anonime e che ha giocato con l'ernia, ci si chiede come mai alla Roma segnino sempre quei calciatori che hanno una storia particolare. Voglio dire, quando la Roma affronta una squadra in cui milita qualcuno che è appena rientrato da un infortunio, oppure un ex di turno o ex laziale, o ancora uno che si porta dietro qualche problema, allora si può stare sicuri che il soggetto in questione faccia un partitone. In effetti quando è entrato Christian Vieri, altro grande redivivo, ho subito pensato al peggio. Per fortuna che era quasi finita. A parte gli scherzi, la questione è tanto stupida quanto reale; magari poi non sempre si perde, ma di sicuro il giocatore inatteso che dà il tutto per tutto c'è e si fa sentire. Di Doni, se non altro, si sapeva che era un ottimo atleta ormai pienamente recuperato. Così come si sapeva di Zampagna, uno di quei bomber di provincia che non ha mai avuto un'opportunità in una grande e non si capisce perché. Un bel gol, il suo. Devo dire, forse con malafede, che anche stavolta il solito Chivu non si è fatto mancare il suo errore in marcatura: era lì, doveva tenere Zampagna e si è voltato quando l'attaccante ternano ha piazzato un bel pallonetto. A scuola calcio mi insegnarono a non voltarmi mai, se non in caso di pericolo per la faccia. Non mi sembrava un caso di pericolo, ma forse sbaglio e forse Chivu dopo l'esperienza di Lione ha temuto per il suo bel visetto. Tra l'altro, pur senza troppa colpa, il Doni giallorosso (Alexander, cioè) non si capisce cosa stesse facendo fuori dai pali. Mah, vabbè, è andata. Complimenti anche a un giocatore che non sarà tra i dieci centrocampisti più forti d'Italia, ma ha dato l'anima e ha corso tutto il tempo; mi riferisco a Migliaccio, vero e proprio factotum della squadra di Colantuono.
Nella Roma, le note positive, per quanto non si possa parlare di una domenica brillante, sono state Vucinic, che pur essendo un pochino troppo evanescente in fase conclusiva ha fatto vedere che si ricorda ancora come si tiene un pallone tra i piedi, e Perrotta, infaticabile motorino e attaccante aggiunto quando serve. Le note negative sono state Tavano, ormai maturo per una valutazione ampiamente negativa, e Wilhelmsson, che a questo punto rappresenta un punto interrogativo per sé e per Spalletti. Facendo una rapida disamina, si può concludere che Vucinic dovrebbe restare se non altro per far vedere davvero l'anno prossimo di che pasta è fatto, che Tavano dovrebbe tornare al Valencia senza rimpianti e che Wilhelmsson dovrebbe essere riscattato dal Nantes per allungare la panchina. Sugli ultimi due, tuttavia, gravano dei seri dubbi: gli spagnoli, data l'inutilizzazione e l'inutilità di Tavano, potrebbero decidere di rinnovare il prestito gratuito e i francesi, dato il non proprio eccelso livello della loro squadra, potrebbero riprendere Wilhelmsson che comunque farebbe la sua parte. Mentre per il primo c'è solo da aspettare, per il secondo la Roma dovrà presentare un'offerta minore rispetto al compenso richiesto, e cioè un milione e mezzo al massimo contro i tre pattuiti in gennaio. Lo svedese è un buon giocatore, per carità, ma non ti cambia una partita ed è discontinuo. Insomma, con tre milioni e il giusto fiuto si trovano elementi interessanti.
Tornando alla gara con i nerazzurri - quelli bravi, l'impressione finale è che la Roma, sazia e con poche pretese, non sia scesa in campo con la voglia e la concentrazione solita. Mancavano diversi titolari, è vero, ma quelli che hanno giocato non erano da meno dei bergamaschi. Credo che la testa fosse già al derby, cosa che può essere vista sia come altamente positiva sia come tremendamente deleteria. Da tifoso non posso però che esprimere disappunto. Continuo a ritenere il derby una delle gare fondamentali dell'anno, ci mancherebbe altro. Continuo anche a pensare che una seconda sconfitta contro la Lazio sarebbe una piccola seccatura, soprattutto perché i biancocelesti, sebbeno Delio Rossi abbia fatto un eccellente lavoro, non sono all'altezza della Roma. Eppure non voglio credere che la Roma abbia lottato fino ad ora solo per poter prendersi la rivincita nel derby. Onestamente devo dire che lì per lì, all'andata, mi è scocciato perdere 3-0, e penso sia normale. Ma il giorno dopo non ho accusato nessuna ricaduta, semplicemente perché è finito il tempo in cui si viveva solo per quei novanta minuti. La Roma aveva altri impegni, più seri e più urgenti, il derby era stata una parentesi sfortunata, come contro la Reggina. Credo che, come me, altri tifosi abbiano provato la stessa cosa. Quest'anno l'emozione vera è stata la Champions, con tutto l'entusiasmo che Spalletti e i suoi si sono portati dietro, con le speranze e le incertezze, con la consapevolezza e l'illusione: una dimensione speciale, ecco. Poi è andata come è andata ma, tamponate le ferite post-Manchester, si può dire che la stagione, per i sentimenti che ci ha lasciato e per quelli (Coppa Italia e Supercoppa) che devono arrivare, sia stata piena di momenti esaltanti.
Ora, tornare invece a basarsi sul derby per dare un senso ad un campionato intero, tornare quindi a quegli atteggiamenti che hanno solo bloccato la crescita della Roma negli anni, penso sia sbagliato e anche un pochino ingiusto. Io non sono un laziale. I romanisti non sono laziali. La Roma non è la Lazio. Poi farò anche un post sulle differenze tra le due tifoserie, ma parlando unicamente di calcio mi auguro che la Maggica non pensi al derby come alla partita della vita. Sarebbe stupido e come ho detto ingiusto, salire i gradini verso l'Olimpo e voler rimanere con i piedi sulla Terra.
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sabato 21 aprile 2007
O'Rey d'Africa
Qualcuno ricorda ancora Abedì Pelè, fenomeno del calcio ghanese passato anche da queste parti con la maglia del Torino?
Chi lo ricorda, ma anche chi non sa chi sia, dovrebbe dare un'occhiata a questa favolosa notizia:
http://www.gazzetta.it/Calcio/Estero/Primo_Piano/2007/04_Aprile/19/pele.shtml
... il campionato ghanese è bellissimo, e io non lo sapevo.
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venerdì 20 aprile 2007
Bei tempi andati?
Ma forse è vero che si stava meglio quando si stava peggio. In fondo oggi il pallone è un'industria e niente più, e a parte quei due o tre presidenti-tifosi ci sono affaristi della peggior specie e imprenditori mai sentiti che sperano di poter ricavare qualcosa dalla sfera che gira per poi mollare tutto nel momento di crisi. Non è che scrivendo queste cose ho scoperto chissà che, ho solo rimarcato la più ovvia delle brutture nel mondo del calcio. Negli anni '80, probabilmente l'ultimo decennio romantico che il microcosmo calcistico abbia vissuto, quasi tutti i presidenti erano anche tifosi della propria squadra. Non che fossero benefattori senza interessi, ma le facce e le parole dei Costantino Rozzi, dei Romeo Anconetani, dei Dino Viola e dei Giampiero Boniperti non le rivedremo né sentiremo più ancora per molto tempo. Si giocavano partite nelle partite, con dichiarazioni più o meno di stile e frecciate che viaggiavano lungo la settimana, incentrate esclusivamente sul calcio e non su bilanci, intercettazioni e doping. Il presidente veniva applaudito o contestato proprio perché era un tifoso come gli altri e sapeva bene quali erano gli umori delle piazze riguardo l'andamento della propria squadra. Oggi chi contesti? Il 51% di Tizio e la cordata di Caio, l'eccesso di ribasso di Sempronio e la plusvalenza di Tal de' Tali. Roba da teoria criogenica, senza passione alcuna. Non sono d'accordo con chi dice che "accadevano le stesse cose, solo che non si venivano a sapere". Sebbene ferito da qualche gravissimo scandalo - vedi il caso Petrini, il calcio nei suoi uomini più rappresentativi somigliava più ad una dimensione reale del film "L'allenatore nel pallone" che alla cupola imprenditoriale e spietata dei giorni nostri. Aveva decisamente un sapore differente.
Non è solo per un clamoroso aiuto arbitrale che si continua a parlare del gol regolare annullato a Turone che nella stagione 1980-81 consegnò per un punto lo scudetto alla Juventus. Le stoccate eleganti tra Viola e Boniperti hanno contribuito parecchio a "fondare il mito" di quella gara. La "questione di centimetri" ancora oggi riecheggia tra gli slogan, quando si sottolinea qualche fatto poco chiaro legato alle decisioni delle giacchette nere. Non erano due amici, Boniperti e Viola. Non erano nemmeno due stinchi di santo. Però, come il grande interista Peppino Prisco, erano appassionati ed intenditori, misuravano le loro battute stando sempre attenti a non oltrepassare il limite della decenza, si pizzicavano sapendo di avere una classe in comune che pochissimi potevano permettersi. Boniperti amava stuzzicare Viola ricordandogli che era l'eterno secondo, Viola ribatteva definendolo un discreto geometra per la questione dei centimetri, lui che era ingegnere. Ultimamente volano altre parole, che al di là del cattivo gusto sempre opinabile, non hanno niente a che vedere con la rivalità ma sembrano più adatte ad un'aula di tribunale o ad una rissa tra comari rancorose.
Poi ci sono i tifosi, che come i presidenti cambiano. E' cambiato il tifo della Juve, un tempo composto da immigrati vogliosi di rivincita e da figli di operai della Fiat, che forse sì "servivano il padrone" ma avevano anche la grande dignità degli sradicati. E' cambiato quello della Roma, perso nei meandri della bassa manovalanza di estrema destra, che ha visto passare nella sua curva il fior fiore del proletariato urbano arrabbiato e felice, con le sue leggende che per convenienza sono state sepolte. E' rimasto tutto popolare, certo. Ma muta la società, fatta dalle persone, e quindi mutano i modi di tenere ad una squadra.
Gli juventini rivendicano con fierezza democristiana Luciano Moggi e Antonio Giraudo, eroi dei due scudetti tolti. Non importa se hanno fatto qualche furbata, anzi proprio perché più furbi e più potenti degli altri sono da osannare e da portare in palmo di mano. I romanisti, dal canto loro, sono inclini a pensare di essere gli unici onesti in un mondo travolto dal marcio e lo sbandierano ai quattro venti dimenticando che è un gioco.
Non credo che Boniperti e Viola si sarebbero mai comportati così. Entrambi hanno avuto le loro macchie, certo. La festa all'Heysel per il primo e la tentata corruzione dell'arbitro di Roma-Dundee per il secondo, per fare degli esempi. Episodi strani, tra l'altro; non si è mai capito se la finale poteva essere rimandata e se la festa l'hanno fatta i calciatori bianconeri incoscienti alla fine della gara, senza il benestare della dirigenza. La Roma non era mai arrivata in semifinale in Coppa dei Campioni e il presidente dimostrò la sua ingenuità facendosi fregare da due presunti mediatori che intascarono la somma senza mai consegnarla all'arbitro Vautrot. Se ne potrebbe parlare all'infinito, ma davvero sono due faccende che non portano con sé quell'alone malato che si percepisce oggi.
Boniperti, pur rimanendo in società negli anni della Triade (c'era anche il fido e a quanto pare un po' tonto Bettega), è stato messo in disparte dal notabilato dei parvenu, troppo impegnati a vincere ad ogni costo, ad allungare i propri tentacoli, a tessere una fitta di rete di conoscenze, amicizie, coperture. Viola, se ci fosse ancora, semplicemente avrebbe smorzato gli entusiasmi per una serie A che va a rotoli e che vede la propria credibilità ridotta al lumicino. Il primo aveva scoperto il promettente Michel Platini, il secondo aveva portato a Roma il giovane talento Paulo Roberto Falcao, regalando al calcio italiano tutto due fenomeni che sarebbero diventati i migliori centrocampisti al mondo e che il mondo stesso ci avrebbe invidiato.
Lo stile se ce l'hai, non lo perdi. Morto Viola, Boniperti si sarà sentito un pochino più solo. Ma ogni tanto torna a dire qualcosa. Tra una riga di giornale che parla di calciopoli e l'altra che descrive le meraviglie dei campionati esteri, l'ex presidente di Piazza Crimea fa sempre la sua figura che ti riporta indietro di qualche tempo, tant'è che non credi ai tuoi occhi quando leggi certe dichiarazioni serene.
"Con calciopoli ci è andata anche bene", ha detto durante l'assemblea dei soci della Juventus. Da un certo punto di vista, con la mentalità odierna, potrebbe quasi risultare offensivo leggere questa frase. Da un altro punto di vista, forse obsoleto chissà, ti scappa un sorriso e riconosci l'avversario di sempre. Sarebbe bello che i tifosi juventini spendessero qualche parola di sincero elogio per questa affermazione. Qualcuno l'avrà fatto, sicuro. Tantissimi altri no, avranno preferito glissare, perché bisogna primeggiare sempre e comunque, senza fare i conti con niente e con nessuno. Men che meno con un vecchio, discreto geometra.
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giovedì 19 aprile 2007
La cicala e la formica
A questo punto bisogna chiedersi che fine hanno fatto i coriandoli, ché a fine partita non si sono visti. A dirla tutta, bisogna anche chiedersi che tipo di tifosi siano gli interisti, che dopo l'1-2 hanno cominciato ad abbandonare San Siro. Nonostante lo scudetto sia ormai praticamente vinto, sono usciti a testa bassa per l'unica sconfitta rimediata quest'anno. Allora è vero che l'interista non sa perdere ma soprattutto non sa vincere. Non lo so, di certo è stato un spettacolo poco edificante.
La partita è andata come nessuno si aspettava. Primo tempo strabiliante della Roma, con l'Inter lentissima e oggettivamente in difficoltà sia in difesa sia a centrocampo. In attacco poco da dire, Ibrahimovic si muoveva con la solita spocchia, Adriano suscitava tenerezza, se si pensava all'Imperatore che è stato e che spero torni ad essere. Soprattutto perché assai poco nobile è stato il rigore che si è procurato e che poteva segnare la svolta-scudetto per i nerazzurri. Lasciando da parte l'arbitro non all'altezza, con quella faccia da primo della classe che è stato beccato impreparato dalla prof e non ci sta, mi chiedo perché uno come Adriano, che è sempre stato un esempio di correttezza abbia dovuto buttarsi in maniera tanto grossolana. Mi chiedo anche perché Materazzi, che non sarà il massimo dell'affabilità ma ha qualche sprazzo di lealtà, abbia esultato in quella maniera. Va benissimo esprimere contentezza per un campionato vinto, ma certo con quell'invenzione...
Insomma, alla fine l'ambiente Inter si stava dimostrando per l'ennesima volta incapace di portare a casa un risultato liscio, bello, senza polemiche. Vero è che a questo punto, ad un interista delle polemiche interessa poco. Però, diciamocela tutta, sarebbe stato un furto e avrebbe un po' contribuito ad alimentare le macchie di questa serie A già tartassata. Nonostante un secondo tempo di pericolosità nerazzurra, la Roma non è stata vittima sacrificale e ha colpito proprio quando non doveva. Ora, non mi piace parlare di festa rovinata. Non ha senso, specialmente perché questa benedetta festa prima o poi si farà. Però mi piace pensare allo snobismo dei tifosi, dell'abbronzatissimo Roberto Mancini e di alcuni giocatori troppo sicuri. Si dice che chi vince ha sempre ragione, e in effetti bisogna dar ragione ad una squadra che quest'anno ha letteralmente fatto a pezzi le altre. Tuttavia lo stile necessario di chi domina, è stato spazzato via dalla boria e dalla voglia di riscatto di un tifo frustrato dalle continue prese in giro, di un allenatore che non sa nemmeno lui come ha fatto a sedersi su quella panchina, di un presidente che fino a qualche mese fa veniva da tutti visto come un signore e di un team che è certamente forte ma anche troppo spavaldo. Nelle ultime tre gare l'Inter ha tirato i remi in barca, mostrando sì qualche segno di stanchezza ma anche pochissimo rispetto per uno scudetto che secondo loro è stato conquistato col sudore. Mi piacerebbe circostanziare meglio queste affermazioni, ma non ne ho voglia. Mi basta pensare che nelle poche brutte figure di quest'anno, né il Mancio né i giocatori né i tifosi sono riusciti a dire che erano stati commessi degli errori di presunzione.
Cosa che invece ha dovuto fare talvolta la Roma. Colpevole di un paradosso: giocare il calcio migliore d'Italia, se non d'Europa, senza racimolare granché. Intendiamoci, una stagione così non l'ho vista nemmeno negli anni di Capello: lì si vinceva uno scudetto, ma tra veleni e chiacchiere si respirava un clima che alternava relax e tensioni. Spalletti ha portato a termine la sua missione normalizzatrice e oggi intorno alla Roma si respira un'aria nuova. Certo, c'è un trattamento meno duro da parte degli arbitri e dei potentati del calcio. Ma c'è anche una squadra che gioca oggettivamente con due tocchi e non ha più paura di affrontare avversari di rango, anche se poi prende sette gol. Durante questa stagione la Roma è stata la cicala, mentre l'Inter, viste le ultime prestazioni, è stata la (grande) formica. Ragionare con i "se" non porta da nessuna parte, però quel pizzico di rammarico che ti rimanda a Reggio Calabria o Messina o Ascoli c'è. Inutile negare che se la Roma avesse sempre fatto la Roma, a quest'ora staremmo parlando di uno scontro diretto ben diverso. Vabbè. Resta la soddisfazione per un profilo sportivo di alto livello, con un collettivo che in campo è compatto e sa esprimersi, e per un profilo umano che non si vedeva da tempo, con un gruppo di professionisti che danno l'impressione di essere più che altro amici affiatati pronti ad aiutarsi l'un l'altro.
Non è poco, perché io, all'operosa e robusta formica vanitosa, ho sempre preferito la divertente e scanzonata cicala che festeggia sempre e sa accettare anche i momenti in cui le cose non vanno bene.
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mercoledì 18 aprile 2007
Belpaese strikes back
Finalmente gli Europei di calcio del 2012 hanno trovato casa. Si sperava che si accomodassero presso le città italiane, ma hanno preferito andarsene nel fresco Nordest, dividendosi tra Polonia e Ucraina. E' uno scandalo? Non mi pare. Economicamente è più vantaggioso investire nelle strutture sportive di paesi che stanno affacciandosi sulla scena europea ed il mercato dell'Est è piuttosto ricettivo alle novità, nonostante siano passati ormai quasi venti anni dalla caduta del muro di Berlino. Non che l'Italia sia da buttare, ovviamente. Però, diciamocelo francamente, agli occhi dell'UEFA, dei grandi investitori, dei gruppi di potere, degli oligarchi vari, l'Italia non è appetibile. Ora, questa potrà suonare come una giustificazione decente, ma non lo è per niente. Anzi. L'Italia s'è resa colpevole davanti al mondo calcistico, e non solo, di diverse malefatte negli ultimi tempi: Calciopoli, il caso Raciti, il comportamento della polizia in Roma-Manchester. E' probabile che non siano stati fatti così decisivi, ma di sicuro qualche influenza l'hanno esercitata. Calciopoli non solo ha provocato lo sdegno nostrano, come al solito tardivo, ma anche quello europeo se non mondiale. L'uccisione di Filippo Raciti, qualunque sia la verità, è rimbalzata con un'eco piuttosto larga da un capo all'altro del Vecchio Continente. E così gli scontri di Roma-Manchester, con i tabloid inglesi scatenati nel lodare i propri ubriachi buontemponi che non sono liberi di fare quel che vogliono.
I giornali francesi, dopo la testata di Zidane a Materazzi, hanno raccolto a piene mani la messe di notizie negative sull'Italia. I tedeschi, pur avendo vissuto uno scandalo relativo agli arbitri qualche anno fa che ha distrutto la Bundesliga, si sono per un attimo sentiti migliori. Gli inglesi, non volendo ammettere di avere ancora gli hooligans a spasso negli stadi, hanno tirato le somme delle magagne italiche, elencandole puntualmente una dopo l'altra e definendoci cheaters, cioè bari, truffatori o se preferite semplicemente disonesti. Non sopporto chi gode delle disgrazie altrui. Se poi lo fa per riabilitare se stesso, ancora peggio. E' un segno di evidente debolezza, di viltà, di piccolezza.
Tuttavia, pur essendo stati piccoli e vili, hanno contribuito sia a generare sia a diffondere uno stato d'animo che non è del tutto condannabile. Noi italiani siamo abituati molto male. Seguiamo il campanile, esprimiamo giudizi, puntiamo il dito contro questo e quello per antipatie senza fondamenti reali. Il giorno che l'Italia vince un mondiale, ci riversiamo a migliaia nelle strade e nelle piazze e facciamo festa fino all'alba. Ci riscopriamo improvvisamente patrioti, siamo tutti amici. Ricordo che la sera della vittoria di Berlino, diversi ragazzi che ho incontrato per strada avevano la maglia di Grosso. A parte qualche interista, chi oggi indosserebbe ancora quella maglia con orgoglio? Quasi nessuno. E' bastato riaccendere le luci sulla serie A per far svanire quel senso di fratellanza - esclusivamente emotivo, sia chiaro. Ed è tornata la mancanza di obiettività, la cura smodata del proprio orticello ai danni del vicino che lo ha sempre più verde. Viviamo in un paese che si sente grande ormai solo quando si vince una competizione sportiva. Il resto dell'anno ridiventa minuscolo, compra e vende partite e va in televisione a proclamarsi vittima sacrificale, ammazza un poliziotto e lo piange incitando nel frattempo all'odio tra Nord e Sud, è pronto a sostenere un manipolo di hooligans pur di dare addosso a qualcun altro. Stamattina la ministra Melandri pare abbia pianto, dopo l'assegnazione degli Europei. Be', la cosa non è che mi tocchi moltissimo, sinceramente. Ma da più parti ho letto la gioia di qualcuno, giusto per non far mancare al nostro classico provincialismo anche un tocco di sedicente appartenenza politica. Mi domando se prendersela con la Melandri, tanto per prendersela con questo attuale governo, possa lenire il dolore di questi patrioti a cottimo. Forse sì.
Apparteniamo ad una nazione dove i palazzinari furbetti vecchi e nuovi si stavano già fregando le mani al pensiero di metterle sui capitali per gli impianti. Dove gli stadi di Italia 90 stanno in piedi come prova del pessimo lavoro che fanno i grandi ingegneri e i vari manager nostrani. Dove i reality show dettano la tendenza e sono specchio sociale, con i loro arrampicatori ignoranti e le loro sciampiste pronte a tutto. Dove se appari sei uno che ha diritto di parola, mentre se ti fai il mazzo e resti in disparte "non sai sfruttare le opportunità". Dove un ex presidente del consiglio di 71 anni si fa bacchettare dalla moglie sui quotidiani perché fa lo sciolto con le altre donne. Dove Luciano Moggi viene invitato in ogni trasmissione tv, scrive sui giornali, parla di tentato suicidio, di rivelazioni bollenti e nessuno gli risponde per le rime. Dove Abete e Matarrese rappresentano il risanamento e la novità del calcio pulito. Dove il portavoce dell'attuale presidente del consiglio va a trans e viene ricattato per questo, guadagnandosi il marchio dell'infamia. Dove i preti ogni giorno commentano a voce alta decisioni che vanno al di là delle loro competenze. Dove l'unico eroe della guerra in Iraq viene ucciso dal fuoco "amico" e viene sepolto in fretta perché non ha avuto il tempo di pronunciare una frase celebre o di essere ammazzato da un islamico. Dove l'eterno Luca Cordero di Montezemolo è presidente di una Confindustria con sempre meno industriali e sempre più "imprenditori".
Questi sono pochi esempi. E in ognuno di essi non c'è solamente una contraddizione tra il lecito e l'illecito, tra il giusto e lo sbagliato, ma c'è anche nascosta la grande ipocrisia degli italiani che sembrano sempre più somiglianti alle caricature estere sui mangiaspaghetti ignavi e intrallazzatori.
I due principali programmi sportivi hanno parlato di shock e di evento negativo, stasera, riferendosi alla scelta di Polonia e Ucraina. Shock ed evento negativo. Ecco un altro motivo per cui, sinceramente, è meglio che questi campionati europei siano andati altrove.
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lunedì 16 aprile 2007
The Number 21
Le carote sono servite a poco, a quanto pare. La Roma c'è, esiste, è viva e lotta insieme a noi, tanto per continuare la serie di slogan che sfilano numerosi in questo periodo dovunque. La gara contro la Sampdoria ci dice alcune cose. Prima di tutto che la Roma è una squadra in salute, vince 4-0 contro una Samp non bella ma in alcuni casi pericolosa, che Francesco Totti, stanco di non essere decisivo in Europa, in Italia è indispensabile e consolida la vetta della classifica marcatori, che Christian Panucci è uno splendido 34enne e che Matteo Ferrari ha lasciato da tempo quell'ombra che lo aveva perseguitato dal momento in cui era atterrato a Fiumicino. Ritengo superfluo soffermarmi sul solito Totti, reo di aver messo a segno due reti di buona fattura e di aver disputato un'ottima partita contro una Samp che sembra ormai diventata bersaglio prediletto. Più che altro sono un po' stupito del fatto che nessuno abbia sottolineato la prestazione di Ferrari, che poche volte è stato risparmiato dal banco degli imputati. Ora, sappiamo tutti che Ferrari ha dei limiti oggettivi: è un difensore lento, molto molto timido, nonostante sia piuttosto alto non è esattamente una roccia. Però ha anche dei pregi, e spesso vengono ignorati o dimenticati. Il suo procuratore Gianni Corci spiegava intervenendo ad una radio locale (Rete Sport), tra le risatine generali, qualche mese fa, che Ferrari è un ottimo calciatore se impiegato sull'uomo. Azzardò, in quell'occasione, uno sciagurato paragone con le due colonne della difesa romanista, Chivu e Mexes, dicendo addirittura che in marcatura il suo assistito era il migliore dei tre. Naturalmente la sua dichiarazione passò in sordina. Sarà che Corci sembra simpatico e che Ferrari sembra un ragazzo tranquillo, ma mi è rimasta impressa quell'affermazione esagerata. Si sa che i procuratori fanno carte false pur di spingere i propri assistiti, anche quando si tratta di palesi brocchi da ippodromo di quart'ordine. Eppure...
Se si vanno a vedere le prestazioni di quest'anno, Ferrari è risultato certamente il più continuo, come rendimento, fra i tre centrali giallorossi. Vabbè che poi io ho il dente avvelenato con Christian Chivu. A questo proposito apro una parentesi. Ultimamente, con l'avvicinamento della fine del campionato, si è tornati a parlare delle cessioni importanti che dovrà fare la Roma. Cioè, che potrà fare la Roma, visto il suo bilancio positivo su cui elegantemente si continua a bluffare con articoli giornalistici a mio avviso da querela. Ammettiamo comunque che la Roma decida di dar via uno tra Mancini, Mexes e lo stesso Chivu.
Ok, si può dire che il brasiliano gioca bene solo quando accende l'interruttore e soprattutto è sempre rimasto un po' ai margini di un ambiente caloroso e di un gruppo in cui sembrano tutti ben inseriti. Si può dire allo stesso modo che Mexes è venuto a Roma grazie ad un colpo di mano, e questo fa sì che, vista anche la clausola rescissoria del suo contratto, il francese possa partire per una squadra più blasonata di quella capitolina (e ce ne sono molte, lo sappiamo). Tuttavia, Mancini quell'interruttore lo accende spesso e quando lo fa non ce n'è per nessuno. Fintantoché non apparirà all'orizzonte un sostituto degno, la Roma dovrà trattenere il brasiliano, c'è poco da fare. Tuttavia, Mexes ha dimostrato ampiamente di essere non solo un difensore abile, bravo tecnicamente e forte fisicamente, ma anche di avere quella personalità che all'inizio della sua avventura romana è stata scambiata per inutile irruenza. E' un giocatore carismatico, in più sembra essersi inserito alla perfezione nello spogliatoio, a tal punto da poter essere considerato un leader. E' un giocatore, insomma, che comunica un certo rispetto. E a Roma non è poco, così come non è poco in qualsiasi altra città. Chivu, invece, sembra in preda a frequenti amnesie; dal punto di vista del carattere, spesso sparisce dal campo quando c'è da metterci il cuore. Dal punto di vista tecnico, gioca quando può e non sempre bene. Ho l'impressione che viva di rendita, ecco. Sa fare cose egregie, ma sa anche sbagliare grossolanamente. Quest'anno diverse reti subìte dalla Roma portano la sua firma, purtroppo. Sbaglia i tempi sotto porta, non ha una grande corsa in recupero, quando trova un attaccante rapido si fa saltare nove volte su dieci. E' bravo negli anticipi, ha una grande classe, per carità; quell'unica volta che ferma l'avversario magari lo fa anche con una certa spettacolarità. Ma in marcatura se andiamo a fare il conto degli errori e degli interventi riusciti negli ultimi tempi, il risultato non credo sia tanto soddisfacente. Ora, uno come Chivu, titolare nella Roma e capitano della nazionale romena, gode in Europa di un alto credito. Se la Roma lo vendesse ne ricaverebbe diversi milioni di euro, che non guastano mai e che possono permetterle di acquistare un centrale magari meno famoso ma certamente più concreto. Dato che io sono convinto che la dote fondamentale di un difensore sia proprio la concretezza e non la leggiadria, la partenza di Chivu non la riterrei un qualcosa di doloroso, anzi. Ma cosa c'entra la parentesi-Chivu con Matteo Ferrari?
Be', posto che in assoluto Chivu è migliore rispetto a Ferrari, in marcatura quest'ultimo secondo me - e secondo Corci - è assai più bravo. A Roma ha avuto un'annataccia, ma chi si è salvato dall'Annus Horribilis 2004-2005? Praticamente nessuno. La croce l'ha portata Ferrari, colpevole di alcune papere innegabili, ma che nel marasma generale non hanno poi fatto questa differenza. Dopo un anno convincente con l'Everton, Spalletti ha creduto di poterlo rigenerare e c'è riuscito. Quante scommesse ha vinto con se stesso Spalletti... Matteo è stata una di queste. La prestazione di domenica è stata praticamente perfetta. Mai una sbavatura, mai un'incertezza, addirittura un paio di volte ha arrischiato dei dribbling in area totalmente riusciti. In silenzio e con grande umiltà, sostenuto dal pubblico che ne ha sempre parlato male ma mai lo ha fischiato o messo a disagio durante le gare, questo ragazzo nato in Algeria ha risalito la china nell'indifferenza. Ha recuperato una personalità che molti davano per inesistente o smarrita, vedi il sombrero a Luca Toni in Fiorentina-Roma di quest'anno, i citati dribbling su Quagliarella, il gol decisivo ad Udine. Fuori dal campo è uno dei pochi che nelle conferenze stampa parla di sé onestamente e non si tira indietro di fronte alle domande spinose. Non lo voglio far passare per il fenomeno che non è, magari mi smentirà alla prossima gara, ma di certo più di una persona dovrebbe scusarsi con lui, dopo avergli dato del brocco, della pippa, dello scarso, dell'antigiocatore. In una città e in una tifoseria che crea e distrugge miti nell'arco di un paio di partite, questo silenzioso quanto efficace Numero 21 ha oggi il pieno diritto di avere quell'attenzione che non gli è mai stata riservata.
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venerdì 13 aprile 2007
Sette a Uno
Una sconfitta così non la puoi commentare normalmente. Non stai lì a chiederti perché l'arbitro non ti ha concesso un rigore, perché Totti non ha inquadrato lo specchio della porta, perché Van der Saar non ha commesso una delle sue papere o altre cose simili. No. Stai lì a chiederti come può essere successo proprio a te. Perché se è vero che alla fine del primo tempo, sul 4-0, hai detto "Purtroppo ci poteva stare, non era facile", alla fine della partita avresti voluto riavvolgere il tempo e rigiocartela mille volte, ché il risultato sarebbe stato in passivo ma non così umiliante. E invece succede che il tempo non lo fermi, che Cristiano Ronaldo esiste davvero e fa quel che gli pare con il pallone tra i piedi, che Alan Smith, un rincalzo, e che Carrick, uno tra i tanti, sono dei fenomeni con la schiuma alla bocca. E ti tocca farci i conti, con gli sfottò, con le prese in giro, con i 7 colli che sono diventati 7 gol lì, con la Roma che pensava di stare a Wimbledon. Non è tanto sofferenza, quella che si prova in momenti come questi, è qualcosa che realizzi a poco a poco, è una gamma di sensazioni che si stende pian piano e il cui confine è impercettibile: incredulità, delusione, vergogna, orgoglio, frustrazione, rabbia, sarcasmo, rassegnazione, acquiescenza. Sensazioni decisamente non bellissime, forse stupide per una singola gara, ma che credo possano essere condivise da quei tifosi che hanno visto almeno una volta un loro sogno sfumato all'improvviso, in un modo che va oltre la peggiore delle previsioni. Ecco, beh... La Roma è andata a giocarsela forte di una vittoria per 2-1 all'andata, ma con la consapevolezza che in Inghilterra sarebbe stata tutta un'altra storia. Però sette gol sono sette gol. In una competizione internazionale, poi, davanti agli occhi di tutti. Pazienza. Ecco l'ultimo sussulto che conclude la gamma emotiva di cui sopra. Pazienza. Del resto il tifoso di calcio, e il tifoso romano (non romanista) in particolare, sa che "ogni maledetta domenica" deve ricominciare. Non me la sento di prendermela con i singoli. Chivu e Doni hanno tanta responsabilità, ma che gli vuoi dire dopo una serataccia simile? E' stato un disastro collettivo, e mi fanno ridere quelli che credono di poter indicare questo o quel responsabile - in un gioco di squadra, poi. Sono stati tutti ridicoli; irritanti, presuntuosi, ingenui, e chi più ne ha più ne metta.
Tuttavia resto un fan e in quanto tale, ho mal digerito alcuni commenti cattivi e stupidi letti qua e là in rete e ascoltati in giro, per le radio, in tv. Purtroppo mi tocca generalizzare, cosa che odio. Ma visto che la generalizzazione è uno sport piuttosto amato che si affianca spesso al pallone, allora mi unisco al coro.
Partendo dalla considerazione fatta prima, su chi e come ha giocato, ad esempio, voglio ribattere a "quelli che" criticano Totti. A loro modo di vedere, Totti avrebbe detto prima della partita che "il quarto di finale vale più della finale mondiale". Per questo, essendo notoriamente l'Italia un paese di patrioti convinti che morirebbero pur di tenere alto il buon nome della propria terra, Totti si è finalmente svelato per ciò che è: un anti-italiano arrogante. Ora, che il Capitano non sia così simpatico ci può stare perfettamente; nemmeno io condivido molte sue uscite di dubbio gusto e la sua immagine che sembra ormai onnipresente nel circuito mediatico. Però Totti ha detto che "sente il quarto di finale più della finale mondiale". Mi domando, anzitutto, se questi signori critici abbiano letto bene le dichiarazioni oppure si siano fermati ai soliti titoloni. In seconda battuta, mi chiedo se abbiano mai provato un'emozione. Un tifoso che ha la fortuna di giocare nella propria squadra del cuore, di divenirne il simbolo, a torto o a ragione, dovrebbe forse censurarsi in nome del professionismo? E perché, poi? A chi ha fatto male Totti dicendo che sente una gara del genere, oggettivamente importante e prestigiosa? L'ultima domanda, dopo queste riflessioni, è se questa gente ipercritica sia veramente tifosa. Perché il tifoso, il supporter, mette prima di tutto i propri colori, poi il resto, nazionale compresa, mondiale compreso. Chiedete ad Oriali, ad Antognoni, a Conti, ad Altobelli o a Cabrini se per loro erano più sentite le gare dei club in cui militavano oppure le gare di Spagna '82. Chiedete ad un calciatore che io personalmente non stimo affatto, ma che in Italia per i suoi atteggiamenti è diventato una sorta di piccolo mito, e cioè Paolo di Canio, se avrebbe voluto sua una maglia da capitano nella Lazio o una maglia della nazionale. Fatevi un esame di coscienza e siate meno prevenuti, per favore. Così come quando non avete aspettato altro che il fischio finale dell'Old Trafford per poter dire: "Ecco, Totti non è mai decisivo". In una gara del genere, per quanto assurdo sia, non c'è un calciatore decisivo, semplicemente perché non c'è niente. O forse Totti avrebbe dovuto vincere da solo... Eppure il tanto glorificato Cristiano Ronaldo, pur avendo dimostrato le sue qualità, non ha vinto da solo. Ha vinto con Rooney, Giggs, Smith, Carrick, Ferdinand, Van der Saar. Una squadra che gioca così bene non è un singolo, così come una squadra che non gioca proprio non è rappresentabile da un singolo.
E' brutto essere prevenuti. L'ho fatto anche io. Mi sono ostinato a volte nel pensare che Ibrahimovic non fosse un grande giocatore, solo perché mi era antipatico. Ho sbagliato di brutto. Non ci devo andare a cena, devo ammirarlo perché ammiro il calcio reale, concreto, bello e so che può essere decisivo come a volte può essere irritante. E' il destino di un campione, stare sulla bocca di tutti, nel bene e spesso nel male.
Per il resto, be', in ordine sparso mi rivolgo agli interisti, che in tantissimi hanno parlato di "squadretta". E' vero, la Roma è una squadretta rispetto al Manchester. Che lo dica io da sostenitore, però, è diverso dal sentirlo dire da loro. Gli interisti affermano che la Serie A di quest'anno sia regolarissima e normale e che la loro squadra sia fortissima e stia strameritando uno scudetto pieno di record. Concordo. Per quanto malandato, è un campionato regolare e l'Inter è uno schiacciasassi imprendibile. Ma se vanno a dire in giro che la Roma è una rometta, il campionato smette di essere normale, i loro record valgono poco ed è vero, parafrasando il tizio al bar, che il loro è uno scudetto di cartone vinto senza avversari. Forse l'intelligenza dovrebbe precedere gli istinti, almeno per opportunità.
Mi rivolgo ai catanesi, i quali hanno visto in questo sette a uno una sorta di rivincita o di vendetta. Ho sentito tante chiacchiere dopo i sette gol, ma mai una lamentela. Il Manchester ha giocato a calcio onestamente e ha tentato di farne otto o nove, di gol, fino al 90°. Nessuno ha avuto da ridire su questo. Probabilmente la soddisfazione di delegare ad altri il riscatto rende i catanesi forti, non lo so. Ma lo trovo vigliacco. Specie se a "vendicarli" è un paese che ignora l'esistenza del Catania, se non per il fatto di Raciti.
Mi rivolgo ai fiorentini, che si sono sentiti scippati del quarto posto e anche loro vendicati. Stesso discorso di sopra: una piccola vigliaccata per una grande gioia. Contenti loro, contenti tutti. Posso capire il sentimento di rabbia, ma la rivincita no, non c'è stata. Poi qui si potrebbero spendere altre parole su quanti li hanno visti con stupore salire dalla C2 alla B, ma lasciamo stare.
Mi rivolgo agli juventini, una vita in bianco e nero. E quindi non ho niente da dirgli.
Infine, mi rivolgo ai milanisti, che in uno stranissimo anno di rancori e simpatie inaspettati (fiorentini che per salvare se stessi avrebbero salvato la Juve, interisti che da bonari perdenti diventano boriosi revanscisti, juventini spaccati tra ladri convinti e nostalgici dignitosi), sembrano essere stati gli unici a minimizzare sulla catastrofe di Manchester, dispiacendosi anzi per la mancata semifinale tutta italiana e facendo i complimenti alla Roma che comunque il suo l'ha fatto. Ripeto che ho generalizzato, ma un comportamente simile non solo mi sorprende ma mi rende anche sereno, dato che ho sempre avuto un po' di simpatia per il Milan e i suoi tifosi - eccetto qualche vip di cui evito il troppo noto nome.
Ed è per questo che concludo la prima filippica, augurando al Diavolo di infiammare come sa fare ormai da molti anni l'Europa, specialmente nel Teatro dei Sogni.
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